Jul
8
2012

Firenze lancia il nuovo condiviso: 4 giorni al mese e 1.250 euro da pagare

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Anno Domini 2012: il Condiviso secondo il tribunale di Firenze. Facciamo nomi e cognomi

Giuseppina Guttadauro, giudice presso la I Sez. civile del Tribunale di Firenze

Abbiamo cominciato nel 2009 – anno di nascita dell’Osservorio Nazionale sul Condiviso – ad informarvi con regolarità sulle sentenze e sui decreti di separazione adottate dai magistrati civili in spregio della L. 54/2006. Domiciliazione prevalente, assegni di mantenimento spropositati, trasferimenti arbitrari di residenza e, ovunque, decisioni che discriminano un genitore e costituiscono – esse sì ! – il vero pregiudizio per i figli del Falso Condiviso.

Chi pensava che, dopo sei anni dall’entrata in vigore della “Riforma”, i tribunali abbiano intrapreso la strada della ragionevolezza si sbaglia di grosso. L’ordine di scuderia rimane: l’affidamento e le sue modalità vengono decise sulla base del prevalente interesse di uno dei due genitori.

A Firenze, lo scorso 5 luglio, ne abbiamo avuto prova, complici anche i servizi sociali che, nonostante la richiesta del ricorrente, non si sono attivati. E così il giudice Giuseppina Guttadauro ha disposto il solito falso condiviso (con la domiciliazione prevalente, invenzione dei magistrati civili e mai prevista dal Legislatore) e l’allontanamento di due figli da uno dei genitori – il padre – già provati da una separazione conflittuale, nella speranza che “la lontananza possa servire ai due ex coniugi per ritrovare la serenità”.

“Ogni giorno celebro dai 20 ai 25 processi, ma mi occupo anche della intestazione delle sentenze e di riordinare i fascicoli. Faccio da giudice e cancelliere allo stesso tempo, ma non mi lamento”, dichiarava il giudice Guttadauro in un articolo del 24 gennaio 2010 del Corriere Fiorentino .

E aveva torto a non lamentarsi, perchè a farlo adesso sono i genitori vittime delle sue decisioni a senso unico, come quella che riportiamo fedelmente qui di seguito.

 

 

 

Sentenze come questa producono nell’opinione pubblica la sensazione della malagiustizia familiare – quella più profonda, frettolosa e offensiva – perchè si percepisce come a prevalere debba essere l’interesse di uno degli adulti, al quale tutto è concesso pur di sublimare le vere esigenze dei due figli: restaurare il legame con il genitore alienato, ricostituire buone prassi all’interno della famiglia e, primo fra tutti, riflettere sulle conseguenze di decisioni dettate da visioni adulto-centriche e mono-genitoriali della famiglia.

Dovere supremo di un giudice è quello di far bene il proprio lavoro, e il giudice Guttadauro – lei per prima – dovrebbe battere i pugni sul tavolo dell’amministrazione giudiziaria per chiedere di non sottoporre lei stessa e i cittadini allo scempio di 20-25 udienze al giorno ed essere messa in condizione di lavorare bene.

Ma Giuseppina Guttadauro, evidentemente, non lo fa.

Lei “non si lamenta”.
Fonte: adiantum.it

Jun
22
2012

Il maschio pentito

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Il maschio pentito è il maschio politicamente corretto e cioè addomesticato, o meglio l’uomo della rinuncia.

Rinuncia ad una presenza significativa in famiglia, rinuncia all’ educazione affettiva alla vita del figlio che si è concepito, rinuncia alla propria storia.

Il Maschio Pentito oggi consiglia, promuove e pratica quell’autodafè per maschi che è il processo al maschio.

Il processo di solito si compie pubblicamente in televisione o sui giornali, viene ormai promosso e gestito direttamente dal maschio, non c’è più bisogno nemmeno della corte al femminile.

L‘imputato è naturalmente colpevole, infatti si processa la sua natura di maschio.

Il processo consiste in una sequenza ormai proceduralizzata che prevede nell’ordine: accusarsi in quanto maschio pubblicamente di ogni infamia trascinando solidarmente nella colpa tutti gli altri maschi, con a seguire la dichiarazione di vergogna e abiura della propria identità, la promessa di cambiarla in base al nuovo modello del giorno meglio se suggerito da una donna psicologa, che normalmente propone una specie di collezione estate inverno dell’identità maschile, la dichiarazione di superiorità delle donne in tutti i campi e l’invocazione finale alla futura città delle donne, nuovo e ultimo nonché unico paradiso realizzabile in Terra.

In questo modo il maschio pentito ottiene il perdono di essere maschio, la riammissione nella simpatia del direttore della rete o del giornale o del conduttore o del pubblico con connesso applauso,il semaforo verde all’ingresso del nuovo mondo dove tutti sono felici magari con la garanzia di qualche passettino in carriera in più.

Tuttavia non basta, e a convincere che indietro non si torna, ovvero maschi non si è proprio più, ci vuole anche una serie di atti di degradazione.

Così con naturalezza, entusiasmo e commozione buonista, in tutti i talkshow e le rubriche televisive di stato e private che contano, appaiono, accolti come modelli del Nuovo Maschio, similmente ai forzati del pentimento di ogni tempo e di ogni identità, nel passato politica o sociale o religiosa o di razza, oggi di genere, pensionati anticipati alle prese con centrini, poveracci che per arrotondare si spogliano in pubblico fra i gridolini di eccitazione delle donne, maschi letteralmente demoliti psicologicamente ed esibiti con fierezza dalla ” Donna liberata che ha impostato un nuovo rapporto con il partner anch’esso liberato”, castrati psicologici di tutti i tipi e motivazioni che hanno rinunciato ad ogni recupero e ben si prestano a far professione di quella tragica e vergognosa resa e rinuncia a se stessi come maschi e padri che la cultura e il potere di oggi chiede loro.

Cose naturalmente già viste nei processi dei regimi totalitari di ogni tempo e che oggi vengono riproposte senza un attimo di sgomento dai maschi pentiti nel ruolo di educatori di regime, come nuova via all’uomo nuovo, al maschio redento, al Nuovo Modello di Maschio.

Questi maschi pentiti ed educatori di regime sono così numerosi e così solerte e così intensa la loro gara nel dimostrarsi i più pentiti e nel predicare il pentimento altrui che non ci si può esimere dal compito pietoso, ancorché difficile, di mettere ordine in una corsa così affollata e frenetica in modo che a ciascuno sia dato secondo il suo pentimento effettivo, in attesa naturalmente che ciascuno riceva secondo il suo pentimento e da ciascuno provenga secondo il senso di colpa di cui è capace.

 

fonte

Jun
20
2012

2 + 2 = 5 – Il bispensiero

Number of View: 4284

2 + 2 = 5 è lo sviluppo di una pratica teorica volta a negare qualcosa di evidente e inconfutabile.

La frase “due più due fa cinque” è uno slogan usato come esempio di un evidente falso che si deve credere alla stregua di un dogma.

Esso, infatti, è in contrasto con l’altra frase “due più due fa quattro” che invece è ovvia, ma politicamente inopportuna, quindi “scorretta”.

Ma  lo Stato può  dichiarare che “due più due fa cinque” come un dato reale? Se pure tutti credessero in esso, comunque non sarebbe  vero.

Che cosa è vero allora? “.

Si tratta di una domanda filosofica che nei millenni della storia umana è quasi sempre stata utilizzata per riferirsi a realtà di consenso umano.

Si parla di realtà di consenso quando più persone sono d’accordo che una  non verità  lo sia e che quindi diventi verità. La nuova verità, appunto.

In questo contesto realtà è  ciò che esiste o ciò che possiamo essere d’accordo, per consenso, che esista.

Questa nuovo linguaggio, o Neolingua, va sotto il nome bispensiero (pensiero doppio), in quanto contiene molte parole che creano associazioni assunte tra significati contraddittori. Tutto ciò è particolarmente vero e riscontrabile in parole dai significati importanti come bene e male, giusto e sbagliato, verità e menzogna, giustizia e ingiustizia.

Il bispensiero, attraverso l’auto-inganno,  consente ad una parte della popolazione di mantenere gli obiettivi e le aspettative irrealistiche come realistiche: in sostanza, in questa logica, per  continuare a governare, si deve essere in grado di dislocare e rilocare il senso della realtà.

Coloro che non sono d’accordo con le realtà del consenso degli altri, o della società in cui vivono, vengono definiti malati mentali, non aderenti alla realtà, tacciati e isolati.

Non stiamo parlando di opinioni differenti, ma di grandi paradossi, grandi anomalie rese normalità scientemente e giustificate da un precedente consenso che ne giustifica ogni azione.

Le frasi, gli slogan nel campo si sprecano: “La povertà è solo una percezione dell’individuo, ma in realtà non esiste”,  “La scuola con meno ore,  meno professori, più alunni per classe anche con bisognosi di sostegno è migliore”,  “non è vero che il proprietario di tanti mass media li controlla anzi, è vero il contrario” e così via.

Appena si rendesse possibile, il bispensiero va a ritroso nel tempo e cancella la storia dai vecchi testi per riscriverla nuovamente  e logicamente in modo più aderente al nuovo corso “politicamente corretto”, anche se logicamente irreale. Con il bispensiero si vuole controllare il passato per giustificare il presente e con esso il futuro.

Bispensiero è un termine in neolingua coniato da George Orwell per il suo libro di fantascienza distopica 1984, mentre il primo autore che elaborò la frase 2+2=5 fu Victor Hugo che, commentando la repentina ascesa al potere di Napoleone III, nel 1852 scrisse che “adesso, prende sette milioni e cinquecentomila voti per dichiarare che due più due fa cinque”.

Il Bispensiero ha la caratteristica di possedere  due convinzioni contraddittorie e, contemporaneamente, di accettarle entrambe.  In base al bispensiero è possibile dire menzogne deliberate e, contemporaneamente e sinceramente, credere in loro,  dimenticando qualsiasi fatto sopraggiunto che sia divenuto scomodo e/o potenzialmente capace di negare il consenso che ne sostiene il senso.

Il Bispensiero per poter essere portato a termine con precisione deve quindi essere sia conscio che, al tempo stesso, inconscio, per disgiungersi da “un vago senso di colpa e di menzogna“, usando “un inganno cosciente e nello stesso tempo mantenendo una fermezza di proposito che s’allinea con una totale onestà“.

In questa logica occorre quindi il “controllo della realtà.

Ciò è tanto più agevole quanto maggiormente si ha il controllo dei mass media.

 

May
18
2012

Femminismo moralmente responsabile di genocidio

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“L’uomo cui muore la moglie tende a suicidarsi dieci volte più spesso della donna cui muore il marito.”

“Tra i disoccupati il tasso di suicidi è doppio rispetto a quello che si rileva tra quanti hanno un lavoro. Tra le donne, non c’è alcuna differenza nel tasso di suicidi, che lavorino o no.”

“Nel bel mezzo della Grande Depressione, la tendenza al suicidio tra gli uomini era 650 volte superiore che tra le donne.”

“Il tasso di suicidi tra gli adolescenti è recentemente aumentato e ora è 3 volte superiore rispetto a quanto avviene tra le ragazze.”

“Solo vent’anni fa, gli uomini tra i 25 e i 34 anni si suicidavano in percentuale doppia rispetto alle coetanee; oggi la percentuale è quadruplicata. (Il tasso tra gli uomini è aumentato del 26 per cento, tra le donne è diminuito del 33 per cento.)”

Questi dati sollevano una serie di interrogativi;

Perché il tasso di suicidi tra i ragazzi è aumentato tanto di più che tra le ragazze, in tempi recenti?
Perché la perdita dell’amore è così devastante per gli uomini?
La depressione femminile è l’equivalente del suicidio maschile?
Perché le donne tentano il suicidio più spesso, mentre gli uomini ci riescono quattro volte più spesso?
Perché la “classe suicida” è anche la “classe arrivata”?

Forse gli uomini si suicidano in numero maggiore perché ce ne occupiamo meno, e quindi la “classe suicida” sarebbe la “classe non amata”?

Cominciamo dagli adolescenti.
Perché il tasso di suicidi tra i ragazzi, ma non tra le ragazze, aumenta del 25.000 per cento quando diventano chiari i ruoli sessuali?

Warren Farrell

 

Il femminismo, col la scusa di combattere le discriminazioni, ne crea ogni giorno di nuove e di enormemente piu’ gravi di quelle che, in modo autoreferenziale, dichiara di voler combattere

 

Il femminismo: crea pregiudizi con la scusa di combaterli
Alessandra Nucci, scrittrice

 

Mar
17
2012

Corea del Nord pena di morte per chi parla al cellulare

Number of View: 5060

100 i giorni di divieto nei quali chi utilizzerà il cellulare sarà condannato alla pena di morte. Una notizia che ha dell’incredibile, specialmente per quei Paesi, il cui uso del telefono mobile, è una pratica quotidiana diffusa, che se fosse vietata forse porterebbe a scene di pura follia tra i cittadini.La situazione della Corea del Nord, luogo nel quale tale divieto è in vigore, è ben diversa. Infatti, solamente pochi eletti, il cinque percento della popolazione è in possesso di un cellulare.

Una proibizione che ha come scopo principale quello di evitare la fuga di informazioni sul nuovo regime guidato Kim Jong-Un, successore del “Grande Leader” Kim Jong-Il, morto il 17 dicembre scorso. Regime che si trova al momento in fase di assestamento e per il quale non si vuole andare incontro a possibili destabilizzazioni attraverso la circolazione di notizie in merito.

Coloro che violeranno tale norma saranno accusati di crimini di guerra e condannati, nel migliore dei casi, ai lavori forzati o addirittura alla pena di morte, possibilità prevista dal codice penale del Paese come punizione per tali reati.

 

http://notizieshock.it/corea-del-nord-pena-di-morte-per-chi-parla-al-cellulare-2/

Mar
16
2012

Dalla lotta di classe alla guerra di genere. Un percorso unitario?

Number of View: 6378

Nel 1917 i comunisti presero il potere in Russia e iniziarono a sterminare le classi non proletarie. Lenin ordinava:

«applicare implacabile terrore di massa contro kulak [contadini che possedevano terra], pope [preti] e Guardie bianche [polizia]; rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento. […] Bisogna dare un esempio. Impiccare (e dico impiccare in modo che tutti vedano)»

L’odio di classe porterà alla più criminale ideologia della storia per numero di morti. Il terrore rosso colpirà soprattutto quei contadini che difenderanno i poderi per impedire di essere ridotti a operai della gleba: carestie e ritorno al cannibalismo.

In tanti paesi si scatenò la violenza rossa, ed il timore che le democrazie cadessero in dittature comuniste spinse i moderati ad accettare dittature.

 

La prima democrazia a cadere fu l’Italia.

Il 23 marzo 1919 Mussolini (socialista rivoluzionario violento ed anticattolico, ex direttore dell’Avanti, cacciato dal partito quando approvò l’intervento italiano nella prima guerra mondiale) con altri 2 socialisti, 2 sindacalisti e 2 arditi fondarono i fasci. Questo il programma: abolizione del Senato, voto alle donne, abolizione della monarchia, corporativismo. Gli iscritti erano reduci interventisti che avevano militato in partiti di sinistra, cui si aggiunsero poi contadini intenzionati a difendere con ogni mezzo i loro poderi dall’esproprio. La loro violenza fu tollerata dalle autorità e superò, anche in brutalità, quella dei “rossi”.

Mussolini capì l’opportunità storica e riuscì a coglierla, instaurando una sua dittatura che garantisse la pace sociale:

L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa.
Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario.

E questo è il messaggio che il fascismo volle trasmettere con il suo inno:

Dopo 10 anni, rimbecillito dai successi, Mussolini divenne il monumento di se stesso, si circondò di gerarchi capaci solo di digli sì per ottenere vantaggi personali, la dittatura si trasformò in una farsa militare e corrotta, fino ad inseguire le follie del nazismo.

 

La seconda democrazia a cadere fu la Germania.

Hitler, un nazionalista talmente invasato da riuscire a piegare il prossimo ai propri voleri, dopo la 1a guerra mondiale militò fra i comunisti per poi approdare al NSDAP, un piccolo partito di sinistra: “Nazional socialista dei lavoratori tedeschi”, abbreviato in nazista. Ne divenne il capo ed il profeta, organizzò uno squadrismo simile a quello fascista, con un inno cupo e violento

In libere elezioni venne votato dalla maggioranza dei tedeschi e delle tedesche riuscendo ad imporsi come Furher della Germania. Rapidamente impose una brutale dittatura ed una ideologia simile al Marxismo, sostituendo l’odio di classe con l’odio razziale. A suo dire le vittime erano non i proletari ma i tedeschi e l’uomo nuovo doveva essere costruito non eliminando le classi sociali nemiche, ma le razze nemiche. Stalin si alleò con Hitler sostenendo che il nazismo era Marxista; insieme invasero la Polonia “per battersi contro il fascismo polacco”, consegnò ai nazisti gli ebrei che cercavano rifugio. Fino a quando Hitler lo attaccò.

 

La terza democrazia a cadere fu la Spagna.

Antonio Primo de Rivera fondò squadre fasciste, che chiamò falangi, e ne scrisse l’inno curando che non incitasse all’odio per il nemico:

Quando venne fucilato dai “rossi” durante la guerra civile spagnola, le falangi passarono sotto il comando del generale Franco che riuscì ad imporre una dittatura fascista, a fermare il terrore rosso, a riportare la concordia seppellendo in un unico mausoleo i caduti di entrambe le fazioni, a resistere ad Hitler tenendo la Spagna fuori dalla seconda guerra mondiale, ed infine a morire permettendo alla Spagna di tornare pacificamente ad essere una democrazia.

In conclusione:

  • Il comunismo ha fatto 100 milioni di morti ed è stato quasi eliminato. Chi lo apprezza può andare in Corea del Nord.
  • Il nazismo ha fatto 25 milioni di morti ed è stato eliminato. Il codice penale polacco oggi vieta il possesso di simboli nazisti o comunisti.
  • In Italia, la dittatura fascista ha condannato a morte 31 persone in 20 anni. L’alternativa poteva essere una dittatura comunista e l’uccisione di 5 milioni di italiani (in media le dittature comuniste hanno eliminato il 10% della popolazione).

 

Delle tre teste del mostro Marxista in guerra contro la natura per imporre l’uomo nuovo — comunismo, nazismo e femminismo — rimane solo il femminismo ed il suo odio di genere. Oggi che il fascismo non esiste più, il vero anti-fascismo è l’anti-femminismo.

 


Il fascismo fu il minore di mali?

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Feb
12
2012

Gay e Lesbiche: date loro una possibilità e non abbandonateli a loro stessi.

Number of View: 4854

La cocaina diminuisce la produzione degli spermatozoi generando impotenza e squilibri nel codice genetico, portando molte volte il drogato all’omosessualità.

All’ inibire la sintesi del testosterone, la cocaina porta a tendenze e comportamenti omosessuali, così vediamo come personaggi famosi e la maggior parte dei componenti dei gruppi di musica rock sono omosessuali o bisessuali e molti di loro si sono suicidati.**

Ci sono mille ipotesi ma onestamente dobbiamo ammettere che non conosciamo ancora in modo scientificamente certo le cause dell’omosessualità. Biologicamente si è pensato ai cromosomi, agli ormoni, a particolari aree del cervello, alla gestazione ma dobbiamo concludere che non appaiono segni peculiari che dimostrerebbero la “differenza”. D’altra parte si tratta di persone complete e chi ha qualche dubbio rifletta sul fatto che Michelangelo e Leonardo da Vinci erano omosessuali.

Psicologicamente, come ho avuto modo di sottolineare in altri articoli, essere uomo ed essere donna è in parte frutto di apprendimento per cui esiste un arco di continuità tra i due generi e delle diverse sottolineature della mascolinità e della femminilità.

E’ noto che le situazioni e gli ambienti possono palesare una certa bivalenza sessuale in cui sono possibili esperienze omosessuali in soggetti ad orientamento eterosessuale. I veri omosessuali lo sono già nell’infanzia e nell’adolescenza ed il marchio distintivo risiede nelle fantasie erotiche che tendono ad essere a senso unico.

Lasciando da parte il freudiano complesso di Edipo, che a mio avviso servirebbe solo a sviare il corretto approccio al tema, diverse teorie psicosociali pongono attenzione alla qualità delle relazioni con i genitori. Contenuti sia di ostilità che di forti legami nei confronti della madre e del padre producono tendenze ad accettare in modo troppo esclusivo o a rifiutare i ruoli rispettivamente maschili o femminili.

L’orientamento più intelligente è quello che ci porta ad ammettere l’esistenza di più cause, o meglio di una serie di concause che spesso vanno a costituire una certa difficoltà di interazione con l’altro sesso con la conseguente scelta di ripiegarsi verso se stessi e verso quelli simili. Il mio lavoro di sessuologo mi porta continuamente conferma di tale modo di vedere, soprattutto in presenza di situazioni in cui si palesa un basso grado di sicurezza e di autostima.

Spesso sono i genitori a rivolgersi allo specialista, sotto l’urto angoscioso del sospetto che il figlio possa essere omosessuale. E fanno molto bene, poiché le situazioni essendo complesse e spesso ingarbugliate, richiedono l’occhio competente del vero specialista in materia.

Quando l’omosessualità è primaria, ossia c’è sempre stata e non c’è alcun desiderio di liberarsene, il terapeuta aiuta il soggetto a riconoscere e a vivere meglio il proprio stato. Quando non si tratta di vera omosessualità ma piuttosto di un blocco dello sviluppo, di immaturità, di repressione e di interferenza deleteria dell’ambiente affettivo, il soggetto è angosciato dalle proprie tendenze e l’aiuto del terapeuta è quantomai indispensabile.

Un periodo particolarmente delicato per l’assunzione di genere è quello dell’adolescenza in cui c’è scarsa capacità di distinguere il desiderio omosessuale dalle fantasie omosessuali.

La paura di essere omosessuale è molto frequente dopo la pubertà e la possibilità di travisare e di amplificare indizi di scarso significato è elevata.  Nella rincorsa frettolosa verso un’identità sessuale che il contesto sociale esige, l’adolescente si potrebbe trovare nella confusione ed adottare forme mentali di autodefinizione che non corrispondono alla realtà.

La consultazione psicologica con l’adolescente maschio costituisce sempre una reale necessità che solo raramente viene attuata. L’incontro con desideri ed angosce omosessuali da parte dell’adolescente non può essere sbrogliato in modo semplicistico dalla buona volontà dei genitori o dall’improvvisatore di turno.

Si tenga presente che il rischio derivato da situazioni irrisolte o malintese è davvero terribile.Per l’adolescente femmina c’è sicuramente minore ansietà e fantasie in relazione all’omosessualità. I legami sentimentali con coetanee sono più agevoli e non hanno necessariamente implicazioni sessuali. E anche se queste ci sono è sempre prevalente il desiderio di intimità rispetto all’appetizione erotica.

Dunque l’omosessualità femminile è più discreta e meno riconoscibile di quella maschile. Infatti tra le donne è più facile una sorta di omosessualità inconsapevole fatta di amicizia, di affetto e di intimità. E’ per questo che le lesbiche hanno meno bisogno di proclami e di lotte sociali. Due amiche che condividono la stanza passano praticamente inosservate rispetto a due uomini nella stessa situazione. Poi le donne esclusivamente lesbiche sono molto meno numerose degli uomini esclusivamente omosessuali.

Non è raro che la lesbica si sposi con un uomo e gestisca contemporaneamente la sua “amicizia particolare” con molta disinvoltura. E’ per questo che le donne omosessuali avvertono meno la “diversità” rispetto agli analoghi maschi. Le modalità del contatto erotico finalizzato alla soddisfazione sessuale accomuna maschi e femmine omosessuali ed eterosessuali, nel senso che si tratta di preliminari tendenti alla sollecitazione e alla masturbazione reciproca fino all’orgasmo.

In tal senso è poco frequente la penetrazione in vagina mediante oggetti. Il raggiungimento dell’orgasmo tra le lesbiche è solitamente più agevole che tra le donne eterosessuali per il fatto che si conosce meglio l’anatomia e la fisiologia del proprio sesso. Rispetto alla sessualità maschile quella femminile, sia omo che eterosessuale, è più centrata sulle manifestazioni affettive per cui il contatto sessuale non ha la stessa impellenza che ha per l’uomo.Come per gli eterosessuali, anche nell’omosessualità c’è l’aspirazione a costituire e a far durare la coppia.

Ovviamente, se è sano di mente, l’omosessuale non pretende di coinvolgere un eterosessuale ma si rivolge a un altro omosessuale. Ciò rende, per ragioni statistiche, più difficile l’individuazione d’un partner disponibile. Riconoscersi l’un l’altro e manifestarsi reciprocamente i propri desideri non è cammino agevole scevro di complicazioni. L’omosessuale, specialmente maschio, è esposto a sofferenze e tensioni che fatalmente si ritorcono contro la stabilità delle coppie. L’omosessualità comporta sempre un certo grado di insicurezza e di fragile identificazione della propria sessualità per cui spesso nell’oggetto del desiderio si cerca anche la figura rassicurante.

Generalmente nelle coppie omosessuali c’è una meno rigida divisione dei ruoli, sia nell’esercizio sessuale che nella quotidianità, a differenza dell’abituale comportamento degli eterosessuali. Circa la fedeltà c’è una grande differenza tra femmine e maschi omosessuali; per le ragioni già dette le femmine sono molto più monogame. La promiscuità nei gay è una tentazione sempre presente che allontana l’appagamento e complica la gestione delle coppie.Abbiamo già detto che l’omosessuale non può essere considerato in alcun modo un malato.

Il vero omosessuale accetta pienamente la propria tendenza, non prova sentimenti di colpa e si ritiene “normale” nel senso che non vede se stesso come un perverso. Ciò non significa che anche l’omosessuale non possa avere problemi sessuali, come l’eiaculazione precoce e la difficoltà dell’erezione, o come perversioni quali il sadismo, il masochismo, il feticismo o la pedofilia. Bisogna dire che l’omosessuale può avere (più facilmente dell’eterosessuale) problemi psicologici quali l’ansia e la depressione.

La disapprovazione sociale, anche se oggi è molto smussata rispetto al passato, potrebbe fiaccare alla lunga sia l’autostima che la soddisfazione relazionale. E’ un fatto, comunque, che il rischio del suicidio è più forte negli omosessuali. Altro fatto significativo è che gli omosessuali (pur avendone bisogno) si tengono generalmente alla larga da psicologi, psichiatri e sessuologi. Questo perché in passato si tentava di sottoporli a psicoterapia nel tentativo di “convertirli” all’eterosessualità. Circa i ruoli nelle dinamiche sessuali ci può essere, soprattutto per il coito anale, l'”attivo” e il “passivo”, ma è assai frequente la variabilità e l’alternanza.

La capacità (e il bisogno) di amare nell’omosessuale è del tutto identica a quella eterosessuale. E’ inutile inventarsi differenze inesistenti: la mente degli uomini e delle donne omosessuali è del tutto normale. Gli squilibri mentali, quando ci sono, non derivano dall’omosessualità, allo stesso modo in cui non potrebbero derivare dall’eterosessualità. La delicata situazione psicologica di tanti omosessuali potrebbe derivare soprattutto dalla solitudine, dall’isolamento o addirittura dall’accerchiamento in cui esprimersi è davvero difficile.

Ancora una volta a soffrire di più è chi ha materialmente di meno. Chi ha soldi e potere realizza molto più facilmente il proprio modello affettivo e relazionale. Quando alle spalle si ha una famiglia povera in tutti i sensi l’omosessualità potrebbe risultare una sciagura e una condanna. Soffo, la poetessa greca, invoca appassionatamente Afrodite perché le lenisca il tormento derivato dall’indifferenza di qualcuna. Ma Saffo è fortunata perché vive in un tiaso di fanciulle e ne è la guida e il centro.

Domenico Iannetti*
*Medico Chirurco
Psicologo Psicoterapeuta
Sessuologo

http://www.studioiannetti.it/omosessualita.htm

http://www.anael.org/italiano/droghe/cocaina.htm **

Feb
11
2012

Le «celle di vetro» del sesso a completa disposizione

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Gli uomini non sono esseri viventi ma esseri facenti.

Sentiamo ripetere spesso che le donne sono relegate a fare lavori malpagati, senza sbocco, in ambienti di lavoro miserabili come le fabbriche.

Ma allorché The Jobs Related Almanac classificò 250 mestieri, dal migliore al peggiore, basandosi su una combinazione di fattori come stipendio, stress, ambiente di lavoro, prospettive, sicurezza e fatica fisica, si rilevò che 24 dei 25 mestieri peggiori erano svolti quasi esclusivamente da maschi (Il venticinquesimo mestiere, per metà svolto dalle donne, era la danza professionale che, come il calcio professionale., indubbiamente era in coda per la scarsa sicurezza, le scarse prospettive, l’elevato tasso di infortuni e l’elevato livello di stress).

Qualche esempio: camionisti, lattonieri, conciatetti, costruttori di caldaie, boscaioli, carpentieri, muratori o capisquadra, operatori di macchinari per l’edilizia, giocatori di calcio, saldatori, costruttori di mulini, metallurgici. Questi «mestieri peggiori» hanno tutti un elemento in comune: dal 95 al 100 per cento toccano agli uomini.

Ogni giorno muoiono sul lavoro tanti uomini quanti mediamente ne morivano in Vietnam in una giornata. In sostanza, gli uomini sono chiamati tre volte alla leva: per tutte le guerre, come guardia del corpo gratuita e per tutti i mestieri pericolosi, o «professioni mortali». Gli uomini si sentono sempre psicologicamente richiamati.

Come le donne forniscono l’utero per creare i bambini, spesso gli uomini forniscono il grembo finanziario per mantenere i bambini.

Molti sono spinti a scegliere professioni mortali proprio per fornire questo grembo finanziario.

Il motto non detto delle professioni mortali è: Il corpo è mio, ma non lo gestisco io.

Le professioni mortali: la più grande «cella di vetro» degli uomini

«Nel 94 per cento degli incidenti mortali sul lavoro sono coinvolti gli uomini.»
«Negli Stati Uniti il tasso di mortalità maschile sul lavoro è dalle tre alle quattro volte superiore a quello del Giappone.

Se negli USA il tasso fosse quello giapponese, salveremmo ogni anno la vita di circa 6000 uomini e 400 donne.»

«Negli Stati Uniti c’è un solo ispettore che controlla la sicurezza delle condizioni di lavoro per ogni sei addetti al controllo della pesca e della caccia.»

«Negli Stati Uniti la sicurezza sul lavoro non è ancora uno dei corsi richiesti per conseguire un master in economia.»
«Nel corso di ogni ora lavorativa, un operaio edile perde la vita negli Stati Uniti.»
«Più un mestiere è pericoloso più è massiccia la presenza di uomini. Alcuni esempi:

Occupazioni pericolose
Pompieri 99% maschi
Taglialegna 98% maschi
Camionisti 98% maschi
Operai edili 98% maschi
Minatori 97% maschi

Occupazioni sicure
Segretari 99% femmine
Receptionist 97% femmine

Uno dei motivi per cui i mestieri svolti dagli uomini sono meglio pagati, è che sono anche più pericolosi. Il supplemento di paga potrebbe essere definito «indennità per la professione mortale». E, nell’ambito di una data professione mortale, quanto più un incarico è pericoloso tanto più probabilmente sarà affidato a un uomo.

Entrambi i sessi contribuiscono a creare quelle invisibili barriere che poi tutti e due sperimentano. Esattamente come il «soffitto di vetro» descrive l’invisibile barriera che tiene le donne lontane dai mestieri meglio pagati, così la «cella dì vetro» descrive l’invisibile barriera che costringe gli uomini ai mestieri più pericolosi.

Il popolo delle celle di vetro sta attorno a noi. Ma poiché sono i nostri uomini di seconda scelta, li rendiamo invisibili. (Quante volte abbiamo sentito dire a una donna: «Ho conosciuto un dottore…» ma mai: «Ho conosciuto uno spazzino…»)

 

Tratto da: IL MITO DEL POTERE MASCHILE, di Warren Farrell.

Feb
6
2012

“IL 52%” Le certezze perdute del maschio moderno

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Durante l’inverno del 2010, compare in tv una campagna di sensibilizzazione al problema dell’erezione negli uomini.

Così recita:  “ Il 52% degli uomini con più di 40 anni soffre di problemi di erezione: Stress, stanchezza, ansia da prestazione. E il maschio fa flop. Secondo una ricerca dell’ISPO le giustificazioni più ricorrenti per chi fa cilecca sono lo stress della vita quotidiana (52%) e la mancata intesa con la partner (27%). Qualcuno parla anche di alcol e cattiva alimentazione. Il problema è che spesso gli uomini tendono a minimizzare o negare il problema, come se non parlarne bastasse a risolverlo. Basta scuse!”

Questa è la campagna di informazione, che propone visite gratuite che aiuteranno gli uomini con problemi di erezione a sbarazzarsi di tabù e problemi sessuali.

Prendendo spunto da questa campagna, ho pensato di fare una piccola ricerca e dare un mio contributo che approfondisca un fenomeno certamente diffuso e preoccupante e che rappresenta il sintomo di un disagio ben più profondo.

Quello che segue è solo un estratto del lavoro che sto portando avanti, spogliato di tutta una struttura teorica su cui poggia, ma che non è possibile riportare per problemi di spazio e di leggibilità in questo contesto.

Premetto e vorrei che questa premessa sia condivisibile con chi intende leggere questo contributo, che il mio approccio alle problematiche di genere non è e non sarà mai oppositivo. Voglio dire che trovo piuttosto scadente e riduttivo, affrontare tali problematiche accusando l’altra parte di avere atteggiamenti e comportamenti che generano in quell’altra, questa o quell’altra cosa.

Sarò ancora più chiaro: non penso che una condizione di generica depressione dei maschietti, come in molti affermano, sia riconducibile ad atteggiamenti femminili che avrebbero il potere di indurla. Così come non ho mai pensato che i problemi al femminile, siano riconducibili ad atteggiamenti maschili.

Non entro ulteriormente nel merito di questo, sperando sia chiaro il mio modo di vedere e con una metafora aggiungerei che siamo tutti sulla stessa barca e le differenze di genere possiamo solo utilizzarle come un’enorme opportunità, più che un’arma per imbastire processi di colpevolizzazione ecc.

 

Fatta questa premessa sposterò la mia attenzione sul maschio e sui suoi riferimenti tradizionali che, inevitabilmente, hanno subito delle profonde modificazioni.

Fino alla metà del novecento, più o meno, il maschio viveva piuttosto distaccato dalla famiglia in quanto era totalmente impegnato nella professione. Poteva essere un pastore, un ragioniere o un professore, ma comunque sia, lui era solo quello. Al di fuori del suo ruolo professionale non aveva particolari interessi e non era coinvolto in nessuna particolare attività. La frequentazione di bar, osterie, dopolavoro ecc, erano i modi con cui consumava il rimanente tempo libero della giornata, quando c’era. Con l’arrivo di un figlio si festeggiava con gli amici al bar, si brindava e se era maschio si brindava con più decisione.

Festeggiare in società il nuovo arrivato è sempre stato un momento in cui il maschio poteva dimostrare la propria virilità attraverso una prova certa.

Ciò non avveniva soltanto in un ceto medio basso, ma se pure attraverso comportamenti più pacati, avveniva anche in ceti medio alti.

I maschi, nonostante siano stati storicamente la sola, o quasi, fonte di reddito per la famiglia non si sono mai preoccupati della numerosità della prole. Nonostante ogni figlio fosse una nuova bocca da sfamare, la loro numerosità non è stata mai contrastata in quanto era prevalente il bisogno di affermare la propria virilità.

Virilità e ruolo socio-professionale hanno rappresentato i due pilastri indiscussi del maschio, indipendentemente dal tipo di professione.

Il maschio che faceva il contadino era il Contadino, il ragioniere il Ragioniere, il professore, il Professore e così via[1].

Quindi, l’identità di un maschio si è sempre retta su due elementi. Da una parte il ruolo professionale e dall’altra la virilità.

Proseguendo il mio pensiero mi sono posto due domande che ritengo cruciali per comprendere la dinamica maschile e l’attuale crisi che si esprime, anche, attraverso il problema dell’erezione.

Perché il maschio si è identificato totalmente nella sua professione?

E perché per un maschio è così importante la sua virilità, tanto da avere bisogno di continue conferme?

Per quanto riguarda l’aspetto professionale, la risposta è piuttosto semplice e intuitiva. Nella famiglia tradizionale una donna si occupava della famiglia e in modo particolare della prole che, oltre ad essere più numerosa rispetto ad oggi, era fortemente minacciata da una mortalità infantile elevata. Ed è scontato il fatto che l’accudimento materno, in particolare nei confronti di un bambino, può essere espletato esclusivamente da una donna. Quindi in una coppia i ruoli erano rigidamente stereotipati. Le donne a casa e gli uomini a lavorare. Non c’erano altre possibilità.

Oggi le cose sono decisamente cambiate, pur tuttavia rimane una forte identificazione dell’uomo rispetto alla sua professione.

Nel momento in cui arriva alla, così detta, meritata pensione il suo ruolo socio-professionale lentamente si smonta e contestualmente compaiono malattie e in molti casi arriva precocemente la morte.

Ricordo con simpatia un amico Comandante di un’importante compagnia aerea di bandiera, appassionatissimo del suo lavoro, che quando è stato costretto ad andare in pensione perché aveva superato il limite di età per un pilota di linea e, nonostante fosse un uomo pieno di interessi, hobby, ecc. fu colpito da una fortissima labirintite che gli provocava forti e pericolose vertigini quasi da non poter più guidare l’automobile. Coraggiosamente avanzai una diagnosi un po’ istintiva, dicendogli che costretto a non volare più si è trovato con i piedi a terra e a questa nuova dimensione non riusciva ad adattarsi e come avviene in molte patologie così dette psicosomatiche, si presentano sintomi paradossali. Infatti le vertigini vengono normalmente di fronte ad una sensazione di altezza e di vuoto, esattamente quella che si percepisce quando si vola in aeroplano. Ma lui, avendo sempre volato fin da ragazzo, il vuoto lo sentiva quando stava a terra. Ovviamente si oppose fermamente alla mia diagnosi istintiva, accompagnando la sua contrarietà con una certa sufficienza al limite della scortesia. Fece dovuti accertamenti che io stesso gli consigliai, e nonostante venne rivoltato dalla testa ai piedi, non venne fuori nulla che potesse far pensare a qualche alterazione organica.

La mia diagnosi istintiva, diventò improvvisamente quella ufficiale e ancora oggi convive con la sua labirintite, attenuata dai farmaci e da una stabilizzazione generale.

 

Se far aderire la propria identità al ruolo professionale, era prima di tutto una necessità, il discorso è un po’ più complicato quando ci spostiamo sul discorso riferito alla virilità.

Spostiamoci quindi sulla seconda domanda per dire, prima di tutto, che il maschio ha sempre avuto la necessità di affermare, in vari modi, la propria virilità ma sicuramente, come accennavo in precedenza, il modo più appropriato e naturale viene rappresentato attraverso la procreazione.

Per questo possiamo estendere la domanda, e chiederci: perché i maschi hanno bisogno di rappresentare a se stessi e agli altri la propria virilità?

La domanda può sembrare banale, mentre invece la risposta, o le risposte non lo sono per niente.

Iniziamo col dire che il simbolo, la prova della virilità maschile si rappresenta con l’erezione del pene. Se si osservano i disegni degli adolescenti nei bagni delle scuole superiori e i relativi commenti, è estremamente chiaro che il tutto ruota intorno ad un’affermazione chiara e inequivocabile: “ce l’ho duro!”[2].

Tutti sappiamo che mentre una donna può rimanere incinta anche senza aver raggiunto l’apice del piacere durante un rapporto sessuale, per un uomo l’erezione è assolutamente indispensabile affinché possa eiaculare e quindi fecondare.

Questo fatto permette di affermare e considerare l’erezione maschile un elemento necessario alla sessualità e quindi alla procreazione.

Quindi potremmo arrivare ad una conclusione parziale di questo discorso, affermando che, sia una donna sia un uomo possono procreare, cioè possono dare continuità alle rispettive esistenze, solo e soltanto se l’uomo ha una erezione. Può sembrare riduttivo e anche un po’ squallido tutto ciò, ma le cose senza ombra di dubbio funzionano in questo modo, che piaccia o meno. E aggiungerei che funziona così per tutti gli animali, non solo per gli uomini.

Andiamo avanti. Un maschio sente da una parte la responsabilità della procreazione ma nello stesso tempo non ha la garanzia di esserne all’altezza. Infatti una défaillance sessuale è per un maschio una brutta esperienza che diventa tragedia se si ripete più volte. Se poi avviene con donne differenti l’impatto sulla psiche è a dir poco devastante.

Quindi, è ragionevole pensare che una certa ansia da prestazione, così viene chiamata comunemente, sia normalmente vissuta da un maschio, anche quando funziona tutto, in quanto non c’è mai nessuna garanzia in questo senso.

Ma il motivo per cui un maschio ha bisogno di affermare, a se stesso e agli altri, la propria virilità dipende dal suo rapporto con la morte, che come vedremo, rappresenta una minaccia decisamente maggiore rispetto alla sua compagna.

Gli esseri umani, tutti, sanno che dovranno morire e rispetto alla morte siamo tutti piuttosto impreparati, anzi direi che siamo totalmente impotenti. Il benessere delle società del primo mondo ha aumentato sensibilmente l’età media, ma nonostante questo miglioramento, la lotta contro la morte è alla fine persa. Purtroppo, tutti dobbiamo morire e l’unica evento che può alleviare il pensiero della propria morte è avere dei figli.

Il ciclo della vita, come sappiamo, è un ciclo di vita e di morte e la continuità è garantita dalle nuove nascite e quindi dalla procreazione.

Ma la cosa curiosa e per certi versi inspiegabile come vedremo, è che gli uomini muoiono prima delle donne e questa differenza è aumentata lentamente, sempre in favore di un’età media femminile maggiore di quella maschile.

Nel 1910 la sopravvivenza media femminile in Europa superava di 3 anni quella maschile. In tempi recenti, ben 7 sono gli anni che una donna vive mediamente più di un uomo, con punte massime che raggiungono i 9-10 anni in Polonia e nell’ex Unione Sovietica.

In questa tabella possiamo osservare l’evoluzione della speranza di vita alla nascita[3] in Europa, dal 1910 al 1990.

TAB. 1 (Fonte: Treccani Enciclopedia delle Scienze Sociali; Caselli 1910-1970; United Nations 1993)

Le spiegazioni che vengono date, a questo curioso fenomeno, sono prevalentemente legate a fattori ambientali. Per esempio in molti sostengono che gli uomini, diversamente dalle donne, hanno storicamente esercitato professioni particolarmente usuranti e che questa potrebbe essere la causa di una età media maschile minore di quella femminile. Ma questa spiegazione la trovo in primo luogo riduttiva, tenendo conto che fare figli è usurante tanto quanto un lavoro usurante e in tempi passati erano molte le donne che morivano per cause legate alla gravidanza e al parto e, in secondo luogo, è un’affermazione totalmente smentita dai dati sulla mortalità, come vedremo.

Ancora. Si dice che il fumo è appannaggio dei maschi e, come sappiamo, è una delle principali cause di decesso.

In molti hanno considerato, a fronte della crescente diffusione anche tra le donne di stili di vita più nocivi, che la naturale evoluzione del fenomeno avrebbe portato a un annullamento delle distanze tra i due sessi dell’età media. Un’ipotesi certamente ragionevole, ma che non ha mai trovato conferma nella realtà.

Al contrario, i dati riportati nella precedente tabella dimostrano esattamente l’opposto. Infatti, nonostante l’età media si sia alzata costantemente in Europa sia per gli uomini sia per le donne[4], è aumentato anche lo scarto tra l’età media maschile e femminile, come abbiamo visto nella Tab. 1.

Quindi, mi pare evidente che sia insostenibile qualsiasi ipotesi che si orienta nei confronti di variabili ambientali.

Mi sono convinto, lavorando in questa ricerca, che i fattori ambientali non possono spiegare una differenza di genere in termini di età media e quindi di mortalità.

Vedremo adesso un altro fenomeno demografico, a disconferma delle varie ipotesi ambientali e che ci aiuterà a capire ancora meglio sia aspetti generali sia come si articola la questione della virilità nel maschio.

Prenderò come riferimento altri dati, estratti dalle tavole dell’ISTAT, per approfondire un fenomeno demografico piuttosto curioso e per certi versi sconcertante. Nel grafico ho riportato la differenza di decessi medi tra i maschi e femmine, in funzione dell’età. Il periodo di riferimento va dal 1999 al 2008, dieci anni che sono rappresentativi della condizione attuale. Andando indietro con gli anni l’età media si abbassa, sia per i maschi sia per le femmine e paradossalmente c’è un maggiore equilibrio tra i decessi dei maschi e quelli delle femmine, anche se prevale sempre una sensibile longevità per le femmine (vedi la precedente tabella 1)

Quello che osserviamo nel grafico 1 è che i maschi muoiono di più e in molti casi molto di più delle femmine.

Nella fascia di età che va da 0 a 4 anni, per esempio, si registrano 522 decessi nei maschi e 448 nelle femmine. Ma se ci spostiamo in avanti con l’età, si raggiunge il picco nella fascia di età che va dai 70 ai 74: 11.012 decessi per i maschi contro 6.370,4 per le femmine, quasi il doppio!

 

In sintesi, questi dati ci mostrano con estrema evidenza che gli uomini muoiono molto più delle donne e, questa tendenza, è indipendente dall’età. (Ovviamente, come si osserva dal grafico, superati gli ottanta anni il rapporto si inverte. Ma mi pare scontato e anche un po’ tetro, affermare che tutti dobbiamo morire e anche se le donne campano di più, alla fine muoiono anche loro).

Graf.1

Per completare questi dati osserviamo il Grafico 2, che utilizza gli stessi dati del precedente ma evidenzia le differenze tra i decessi maschili e femminili per fasce di età.

Graf. 2

Da questo grafica notiamo che fin dalla nascita fino a ridosso alla fascia che va dagli 80 anni agli 84 anni compresa, i maschi muoiono molto di più delle donne.

 

Adesso proviamo a ragionare su questi numeri per trarre qualche conclusione.

1)    L’età media, sia per i maschi sia per le femmine, è costantemente aumentata;

2)    I maschi hanno sempre avuto un’età media inferiore a quella delle femmine e questa differenza è aumentata nel tempo;

3)    Fin dalla nascita i maschi muoiono più delle femmine, il che va inevitabilmente ad inficiare qualsiasi ipotesi che fa riferimento a variabili di carattere ambientale.

Ma se esiste una differenza così marcata, ma più che altro presente ad ogni età, dobbiamo necessariamente convincerci che questa dipende da fattori strettamente biologici e quindi innati.

Possiamo arrivare alla conclusione che i maschi sono più fragili delle femmine?

Affermare che il maschio è più fragile di una femmina stravolge tanti luoghi comuni, in primis quello del “sesso debole”. Non piace ne agli uomini ne alle donne un’affermazione di questo tipo, ma credo che questa sia l’unica conclusione possibile,  direi anche scontata, a cui dobbiamo arrivare, semplicemente osservando la freddezza dei numeri.

Il problema può essere visto anche invertendo i fattori, e cioè si può dire che una donna è decisamente più forte di un uomo.

Anche se può sembrare una cosa inutile rovesciare il punto di osservazione, ci aiuta a capire meglio questo concetto.

Una donna è attrezzata a generare vita e questa risorsa, probabilmente, la rende più coriacea, la rende sicuramente più coreacea nei confronti della morte, riuscendo a contrastarla con maggiore decisione. Questa forza non va vista solo ad un livello strettamente fisico, ma interessa inevitabilmente ogni parte del suo organismo, sia fisico sia mentale.

 

Torniamo ora alla domanda da cui siamo partiti: perché i maschi hanno bisogno di rappresentare a se stessi e agli altri la propria virilità?

A questo punto, dopo aver sviscerato un po’ di numeri che ci hanno dato una base di conoscenza, possiamo affermare che il maschio è maggiormente vulnerabile, ha strumenti più scarsi nei confronti della morte rispetto ad una femmina e per questo si sente “obbligato” a ostentare la propria virilità nelle forme più bizzarre e pittoresche.

Attraverso la sua virilità e l’ostentazione nel manifestarla è come se volesse affermare che può procreare e attraverso una nuova vita lottare contro la morte che su di lui esercita una pressione maggiore.

Ma oggi, per fortuna o purtroppo, viviamo in un tempo in cui la procreazione si è drasticamente ridimensionata. In primo luogo perché essendoci stato un crollo della mortalità infantile, l’equilibrio tra vita e morte può essere garantito senza dover fare molti figli. In secondo luogo, attraverso varie forme di fecondazione assistita il ruolo maschile è sempre più marginale.

I vari centri che si occupano del problemi di fecondazione riducono il problema ad aspetti strettamente medici, per cui una donna è un uovo da fecondare e l’uomo un seme da utilizzare. Ma certamente i riflettori, in termini di fecondazione assistita, sono accesi tutti sulla donna, semplicemente perché è lei che dovrà fare il figlio e tutti i mezzi che vengono utilizzati, dalle stimolazioni ormonali alle varie forme di inseminazione, sono indirizzati sulla donna. Il ruolo dell’uomo è estremamente marginale e se ci si rivolge alla banca del seme, diventa assolutamente nullo.

 

Tornando al problema da cui siamo partiti e sintetizzando tutto questo ragionamento, possiamo dire, con un certo imbarazzo, che il maschio oggi ha un’utilità sensibilmente minore di prima. Ciò è avvenuto e avviene, sia per un cambiamento nelle professioni, non più appannaggio maschile, sia per una profonda trasformazione del processo procreativo.

I due pilastri portanti dell’identità maschile, ruolo socio-professionale e virilità, sono stati, per i motivi sopra esposti, drasticamente ridimensionati e oggi un maschio, deve fare i conti con una ristrutturazione profonda della propria identità.

Se, come penso, l’erezione è la prova incontrastata della virilità maschile, risulterà normale che proprio questa viene depressa.

Ovviamente viene da chiedersi quali possono essere le soluzioni ad un problema che è certamente diffuso e preoccupante.

Diciamo prima di tutto, che la soluzione, ammesso che ve ne sia una specifica, non passa attraverso l’utilizzo del viagra. Purtroppo assistiamo ad una diffusione impressionante del farmaco, sia attraverso le normali e legali reti medico-farmaceutiche sia attraverso un commercio parallelo su internet.

Ma la “soluzione” del viagra è una non soluzione, nel senso che rappresenta una totale negazione del problema e di conseguenza comporta una dichiarazione di resa.

Concludo dicendo che la soluzione non è una soluzione pratica, ma passa attraverso un riassetto profondo dell’identità maschile cioè  attraverso l’assunzione di nuovi riferimenti che necessariamente dovranno fare i conti con una realtà in movimento.

Dott. Giorgio Carnevale

 

[1] A tale proposito può essere utile e anche divertente ascoltare o leggere un brano di G. Gaber “Il comportamento”, che tratta proprio della differenza tra un comportamento ben definito appartenente a due generazioni fa e quello delle generazioni successive, in cui i comportamenti risultano essere più indefiniti .

[2] Non c’è da scandalizzarsi più di tanto, quindi, che il Presidente del terzo partito d’Italia, l’On Bossi, ha fatto del celodurismo il suo motto. Capisco che possa creare imbarazzo, ma evidentemente il motto leghista fa presa ad un livello primitivo, sia di un uomo sia di una donna.

[3] Questa rappresenta il numero medio di anni che un individuo vivrebbe qualora sperimentasse durante la sua vita i livelli di mortalità registrati nell’anno di osservazione.

[4]Per i maschi la differenza tra la speranza di vita tra il 1910 e il 1990 è pari a 24,3, mentre per le femmine è di  27,9

 

https://www.facebook.com/notes/dott-giorgio-carnevale/il-52-le-certezze-perdute-del-maschio-moderno/10150569287984242

Nov
2
2011

Sfrattato vive in auto: “non trovo lavoro”

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Ad aiutare Marco solo la sua compagna che spesso gli porta qualcosa da mangiare, dai parenti solo qualche telefonata.

Vive in via Val d’Aosta.

Lì dove, circa un anno fa, si è fermata la sua auto.

Una Fiat Uno, posteggiata in un’area di servizio nel quartiere Nomentano a Roma, unico tetto sotto il quale ripararsi quando fa caldo, quando le temperature scendono, quando piove.

Marco Proietti, 50enne romano, si è sistemato così, tra i due sedili anteriori e quelli posteriori dove tra abiti e generi di prima necessità dorme Lucky, il suo cane.

In attesa di trovare un nuovo lavoro e una nuova abitazione.

Con alle spalle una cultura considerata «pericolosa da chi offre impieghi a condizioni molto spesso irregolari», dice, Proietti cerca di arrangiarsi con il contributo passato dal Comune che troppe volte, lamenta, non viene corrisposto in tempo.

Dirigente di una galleria di arte contemporanea, poi agente immobiliare, Proietti ha perso tutto quando la sua agenzia è fallita travolta dalla crisi.

«Sono dovuto tornare a vivere da mia madre – racconta all’Adnkronos – e ci riuscivamo a mantenere con la sua pensione. Poi è morta e nel luglio del 2010 è arrivato il primo sfratto. Dopo tre mesi il secondo, ma per il giudice fino a dicembre avrei potuto rimanere in casa».

Una sera di ottobre la sorpresa. «Quando sono tornato a casa ho trovato i lucchetti alla porta – spiega – il proprietario mi ha fatto recuperare le mie cose e da lì è iniziato il calvario».

Proietti è riuscito a rimediare un’auto dove si è sistemato insieme al meticcio di taglia grande dal quale, nonostante le difficoltà, non ha voluto separarsi.

Passa le giornate cercando un’occupazione, dalla più umile alla più inerente alle proprie attitudini, ma il lavoro non si trova. «Dicono che sono troppo vecchio per alcuni impieghi, troppo colto per altri – racconta – Ho esperienze significative alle spalle, scioltezza nel parlare, conosco anche lo spagnolo.

Penso che abbiano paura di assumermi perchè sarei in grado di contestare condizioni di lavoro irregolari facendo vertenza».

«Conviene non conoscere la lingua o essere ignoranti per trovare occupazione e potersi permettere quattro mura e un pasto caldo», conclude amaramente Proietti che non può neanche ritornare a occuparsi di immobiliare, spiega, «perchè non so come spostarmi e non ho un completo adatto all’occasione».

«Mi sono quindi iscritto ai centri sociali per chiedere aiuto ma mi darebbero qualcosa solo se disposto a combattere contro il sistema politico», racconta.

«Picchetti, manifestazioni, scontri che permettono di accumulare punti per entrare nelle liste dei possibili occupanti – spiega Marco – ma io non ho più voglia di immischiarmi in queste situazioni, non ho più l’età nè l’entusiasmo politico di un tempo».

Unica fonte di sostentamento il sussidio per adulti, un contributo bimestrale di 300 euro passato dal Comune attraverso il IV municipio che, però, sottolinea Proietti, molto spesso non viene versato per tempo.

«Doveva essermi corrisposto lo scorso 5 ottobre ma ancora non ho ricevuto nulla – spiega – È sempre così, ad ogni scadenza dobbiamo sopportare un ritardo minimo di 20 giorni.

Sono andato a ritirare l’assegno, che viene intestato a mio nome, alla cassa del municipio e, come volevasi dimostrare, hanno rimandato».

A quel punto Proietti si è rivolto agli assistenti sociali del IV Municipio per avere chiarimenti ma, riferisce, la risposta è stata ancora una volta evasiva.

«Dicono che non ne sanno nulla, di parlare con l’amministrazione comunale perchè è il Comune a versare i soldi alle circoscrizioni. Quegli importi saranno stati utilizzati per spese amministrative o chissà che altro».

In queste condizioni per Marco Proietti la possibilità di andare a vivere in affitto diventa sempre più un miraggio.

Perchè se il sussidio, insieme al contributo sull’affitto previsto dalla legge sull’emergenza abitativa, potrebbe bastare a pagare i canoni mensili, con 300 euro ogni 3 mesi diventa impossibile risparmiare per mettere da parte le due mensilità richieste alla sottoscrizione della locazione.

Ad aiutare Marco solo la sua compagna che spesso gli porta qualcosa da mangiare, dai parenti solo qualche telefonata.

Neanche la Caritas lo può accogliere, a meno che non decida di affidare Lucky a un canile.

Ma a queste condizioni Marco preferisce vivere per strada mentre continua a darsi da fare in cerca di casa e lavoro.